29 dicembre, 2013

Dare soprannomi, una tradizione di famiglia

Gli amici di papà non si chiamavano Mario, Antonio, Ernesto e Gino. Per papà erano "panza ricca", "tarantola" (cecato), "babú" e "focu focu" (altamente impressionabile). Non ho mai saputo i veri nomi di queste persone perché in casa si usavano i soprannomi. C'erano poi "la simigia" (vuol dire chiodo, perché moglie del calzolaio) e "caciello". La tradizione di affibbiare un nomignolo agli amici - ora che papà non c'è più - continua con me. Anche se non sono così brava a rinominare le persone. E così, il ragazzo magrino con l'aria cupa e il maggiolino nero diventa Dylan Dog, quello che insegna alla facoltà di filosofia è "il filosofo" e il tizio che mi manda una foto a torso nudo è ribattezzato "capezzolo".

Ma non sempre i soprannomi sono graditi a chi li porta. Il collega egoista che passerebbe sul cadavere della madre per fare carriera è "lo squalo". In effetti, non si tratta di un complimento. C'è poi chi ha preso bene la nuova etichetta. Il tipo che sembra una batteria sempre carica è Iron man. Quello che ha lo stesso cognome del capitano della nave Concordia, Schettino, non può che diventare "vada a bordo, cazzo!". Ma il soprannome più bello, quello da primo premio, va alla donna che si pavoneggia e ha sempre gli occhi truccatissimi: donna Cleopatra. A me non dispiacerebbe.

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