08 novembre, 2010

La morte di Ziogò e le mie convinzioni

Zio Goffredo si è spento in un letto di ospedale, in una calda giornata di aprile del 1993. Gli avevo promesso una visita, ma quel giorno mi è mancata la forza. Non avrei potuto sorridergli senza trattenere le lacrime, senza mostrare il mio dolore per le sue sofferenze e per quella condizione clinica disastrosa che non gli avrebbe lasciato via di scampo. So che lo zio ci è rimasto molto male per la mia assenza. A volte penso che è colpa mia se quel giorno lui si è lasciato andare e ha chiuso gli occhi per sempre.
Quel giorno, chi era presente nello stanzone di geriatria ha raccontato che ziogò non era solo. Pochi minuti prima di andar via ha ricevuto la visita di un ragazzino invisibile. Un’anima. “Che ci fai tu qui?” ha detto lo zio a questo spirito tra lo stupore degli altri malati che non vedevano nessuno nella stanza. “Sei venuto a prendermi, vero?”. Quando ho saputo dell’episodio mi è venuta la pelle d’oca. Il ragazzino era suo fratello - secondo una zia - morto adolescente per la Spagnola. Mamma ne è sicura.

Spesso penso alla morte di ziogò nei momenti di sfiducia, quando rinnego Dio, la fede e non credo alla vita eterna. Con un senso di disagio e l’amaro in bocca ho cercato una spiegazione. “Si tratta di una suggestione – voglio convincermi – oppure siamo davvero destinati alla beatitudine eterna?”. La razionalità di una laureata in chimica mi spinge ad adottare la prima ipotesi. Eppure da quando ho perso papà voglio credere con tutta me stessa che c’è un futuro nell’aldilà. Mi sforzo. Cancello la parte cerebrale per far vincere il cuore. Devo credere nell’aldilà. Non accetto l’idea di non poter più incontrare papà. Certo, in paradiso non è possibile vedere insieme la tv, come facevamo in passato, mano nella mano. Chissà se gli abbracci sono consentiti.

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